“La razza è la figlia del razzismo, non la madre.”
Questo è sicuramente il momento storico migliore (o peggiore) per leggere “Tra me e il mondo” di Ta-Nehisi Coates. La sua opera più acclamata, scritta sotto forma di lettera indirizzata al figlio alla soglia dei suoi quindici anni mi ha aiutato a farmi le domande giuste, trovare le risposte e ad avere una visione più chiara della situazione razzista in cui sta vertendo e verte da sempre l’America. Leggerlo dopo i recenti avvenimenti che hanno visto la morte di George Floyd e le successive manifestazioni e scontri tra popolo nero (e non solo) e forza di polizia è stato illuminante.
Il libro è uno straordinario racconto che Coates fa della sua infanzia nella parte sbagliata di Baltimora e della paura con cui è cresciuto lui e tutti i ragazzini di colore. Paura della polizia, delle gang, della scuola, della violenza dei genitori; paura di perdere il proprio corpo, perché Coates capisce che è quello il punto: il “corpo” della gente di colore, da sempre di proprietà o di dominio dei “sognatori”, quei bianchi o presunti tali, che da sempre lo controllano, lo sfruttano e che hanno il potere di distruggere senza conseguenze.
“Va detto che il tentativo di lavare nella candeggina le varie tribù e di esaltare la credenza di essere bianchi non è avvenuto assaggiando buon vino e dolcetti in società, bensì attraverso il saccheggio della vita, della libertà, del lavoro e della terra; attraverso il frustare schiene; l’incatenare arti; lo strangolamento dei dissidenti; la distruzione di intere famiglie; lo stupro delle madri; la compravendita di bambini; e attraverso molti altri atti intesi, prima di tutto, a negare a te e a me il diritto di proteggere e controllare il nostro corpo.”
Lo scrittore ripercorre la storia dell’America, un paese basato sulla schiavitù e che in centinaia di anni non è cambiato poi tanto. Parte da Ground Zero dove, ben prima della costruzione e del crollo delle torri gemelle c'era la sede del mercato degli schiavi della città di New York, per poi giungere alla condanna per le continue morti ingiustificate per mano di una polizia figlia di un sistema razzista e marcio.
“Ti scrivo nel tuo quindicesimo anno. Ti scrivo perché questo è l’anno in cui hai visto Eric Garner morire soffocato per aver venduto delle sigarette; perché ora sai che Renisha McBride è stata colpita da un proiettile mentre chiedeva aiuto, che a John Crawford3 hanno sparato perché dava un’occhiata agli scaffali del supermercato. E hai visto uomini in uniforme sparare dall’auto e uccidere Tamir Rice. Un ragazzino di dodici anni che erano tenuti, sotto giuramento, a proteggere. E hai visto uomini con le stesse uniformi picchiare a sangue Marlene Pinnock, una nonna, sul bordo di una strada. Così ora sai, se non l’avevi già capito prima, che alla polizia del tuo Paese è stata conferita l’autorità di distruggere il tuo corpo.”
C’è tanta rabbia in questo testo, rabbia e paura, ma soprattutto c’è tanta verità, quella che un padre vuole insegnare al figlio perché sappia, perché impari a vedere oltre la superficie, a capire e perché lotti sempre per cambiare le cose. Un figlio che ha deciso di educare in maniera diversa, senza quella violenza che hanno insegnato alla sua generazione, violenza che veniva usata perché i figli crescessero sapendo da cosa si dovevano difendere e perché fossero pronti a farlo. Al suo vuole insegnare il potere della parola, della lotta, della conoscenza.
C’è anche tanta speranza però, speranza che i sognatori bianchi capiscano il grande privilegio che hanno, quello di potere non provare paura e che si schierino dalla parte giusta perché finché non cambiano i bianchi, l'America non cambierà mai.
“L’America considera se stessa un prodotto di Dio, tuttavia il corpo dei neri è la prova più evidente di come l’America sia opera degli uomini.”
Questo è un libro da cui non si esce indenni.
Questo è il potere della scrittura.
5/5
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