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C.

non si giudica un libro dalla copertina


“Non sono capace di combinare niente sul piano reale. Ho solo una scadenza per la consegna di un lavoro su un poeta morto e sepolto, un vecchio gatto con i pannolini, un’anatra. E una madre che non è pronta ad affrontare il tramonto.”

Non si giudica un libro dalla copertina, è vero, ma dal titolo non se ne può fare a meno e questo parte davvero bene.

Meglio sole che nuvole” è il titolo meraviglioso di un libro davvero niente male.

So che “niente male” non è un giudizio completamente positivo ma si tratta di un libro spiazzante, abbastanza impegnativo, fuori dal comune e il mio giudizio lo è di conseguenza.

Consigliato da un amico che legge tantissimo (i grandi lettori sono davvero pochi ma per fortuna ne conosco alcuni) e che a sua volta se ne era incuriosito leggendolo sul nostro "Friday" (perché per fortuna alcuni di questi pochi grandi lettori ci seguono pure), mi sono avventurata in questa lettura che posso definire davvero originale.

Già la trama lo è:

J, ( di cui non si saprà mai il nome, così come di nessun altro), nel mezzo del cammin della sua vita ha deciso di congedarsi dall’amore. Il suo matrimonio è fallito, non ha figli, e l’ultimo incontro con l’ultimo suo amante, Sir Gold è stato un disastro, così come i tentativi di ritrovare le sue vecchie fiamme. J torna allora a Miami, si prende cura del suo gatto ormai alla fine dei suoi giorni e di un’anatra ferita mentre osserva i bizzarri inquilini del suo grattacielo e traduce brani di Ovidio. Le sue giornate sono scandite da lunghe nuotate nella piscina a clessidra del suo residence e da ore passate a fantasticare. Finché un giorno, scrutando il balcone del ventiduesimo piano, vede una donna dalla chioma biondo platino che lascia cadere qualcosa nel vuoto…

La storia di J. È una grande metafora della vita e dell’amore. Attraverso le storie di Ovidio che lei passa la vita a tradurre e modificare a suo piacimento, ripensa alla sua vita, agli amori passati, a quelli deludenti del presente e alla sua realtà di donna sola ma consapevole.

Non si va mai nel dettaglio del suo passato; la scrittrice è davvero molto abile nell’accennare a violenze subite ma senza descriverle, a entrare in punta di piedi nei ricordi di un matrimonio fallito e sottintendere il dolore per una mancata maternità, a raccontare momenti di autoerotismo attraverso le semplici fantasie di J.

Un libro che racchiude in sé spunti profondi da scovare, mai esplicitati, una scrittura ricercata, una maniera unica di affrontare la narrativa. Un libro che, solo se letto con attenzione e lasciato sedimentare un po’ svela tutto il sotto testo che nasconde.

Un libro che senza “dirlo” parla di violenza sulle donne, di consapevolezza, di senso materno, di delusione e solitudine.

J. è una donna incapace di portare avanti una relazione appagante, ha una bassissima autostima, sceglie solo uomini sbagliati, è incapace di farsi amare e amare veramente, si rifugia nell'autoerotismo e nella routine di tutti i giorni.

“E forse questo è sufficiente. È sufficiente avere ricevuto un po’ d’amore, un tempo. Anche se non ha funzionato a lungo.

Forse è sufficiente averne ricevuto in passato, e adesso vivere solo con i suoi frammenti, e non c’è proprio niente di male se dedichi l’amore che ancora ti resta a un vecchio gatto o a un’anatra, ai pochi cari amici, a tua madre.

Sull’arca non tutti sono in coppia."

Nessuno ha un nome, c’è chi viene indicato solo con un’iniziale, chi con un soprannome che ne identifica l’aspetto o il carattere, i personaggi sono tutti al limite del grottesco, così per lo meno ne escono descritti dalla protagonista.

La sua realtà e tutto ciò che la circonda è visto con occhi di fantasia e il libro è un intervallarsi continuo tra realtà e immaginazione.

Con una scrittura poetica e sensuale, Jane Alison racconta di una donna delusa dagli uomini, che esplora le terre instabili del cambiamento e della solitudine per riprendere in mano la sua vita e accettare, finalmente, il suo desiderio di amare ed essere amata.

Ho detto a mia madre che sapevo che vivere da soli non è un modo autentico di vivere. Come tutti, però, anche io sono una bugiarda. È il modo di vivere più autentico che ci sia. Se ti occupi di un gatto cieco e di unʼanatra sbrancata, e se frammenti di uomini ti cadono nella cartella della posta in arrivo, e se chiacchieri occasionalmente con una signora scheletrica e una vecchia madre traballante, e se di tanto in tanto scambi messaggi con gente della tua età, e se ti concentri per riportare in vita un poeta morto, sicuramente basta e avanza. Dopotutto Biancaneve aveva sette nani. Deve pure aver voluto dire qualcosa. Cioè. Se una donna guida la propria auto e paga l’affitto della propria casa e riesce ad aggiustare la maggior parte delle cose o a trovare e pagare qualcuno che lo faccia quando lei non ce la fa, se è capace di scovare dentro di sé le risorse necessarie per resistere anche nei momenti più neri, quando tutto va da schifo, e se ha da tempo deciso che non c’è niente di male, cazzo, a bere da soli – sì, parliamoci chiaro, con chi è che dovrei bere? – e se inoltre ha deciso che l’autoerotismo non solo non fa male, ma è salutare, soprattutto se accompagnato da fantasie tratte dalle sue escursioni nel mondo: allora va tutto bene.

3/5


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