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C.

non si giudica un libro dalla copertina


“Avere una sorella o un’amica è come sedere di sera in una casa illuminata.

Quelli di fuori se vogliono possono guardarti, ma tu non hai nessun bisogno di vederli”

Decisamente troppo in ritardo, ma meglio tardi che mai (concedetemi il luogo comune) ho finalmente letto “Le cure domestiche” di Marilynne Robinson. Devo dire grazie a S. che me lo ha regalato in occasione di Tempo di libri a Milano dicendomi “Ti piacerà tantissimo!”…e così è stato. Non è solo perché S. mi conosce molto bene ma perché stiamo parlando di un libro indiscutibilmente bellissimo.

Romanzo d'esordio, scritto nel 1980 a quasi 40 anni che la porta da subito (anche se molti anni dopo scriverà "Gilead" con cui vincerà sia il National Book Critics Circle Award che il Pulitzer Prize for Fiction) nell'olimpo dei grandi scrittori del nostro secolo.

Protagoniste del romanzo sono due sorelle pre-adolescenti, Ruth e Lucille, cresciute a Seattle senza padre fino al giorno in cui Helen, la madre, non le riporta a Fingerbone, la cittadina nel cuore del Midwest dove è cresciuta, lasciandole sul portico della sua vecchia casa per poi gettarsi con l’auto in un lago. Vengono affidate prima alle cure della nonna, poi di due prozie zitelle e infine di Sylvie, la sorella di Helen che aveva lasciato il paesino per una vita di vagabondaggi.

La vita delle bambine è segnata dalla solitudine e da quella stessa precarietà e incertezza che si rispecchia nel paesaggio che le circonda, costantemente sommerso dall’acqua, dalla neve, dal ghiaccio, un luogo alienante e inospitale.

Così come è instabile e senza fondamenta la loro famiglia, così lo è la loro casa.

Nel corso del romanzo, dopo anni trascorsi in una sorta di simbiosi, le due sorelle finiranno per separarsi nel momento in cui Lucille sceglierà di scrollarsi di dosso il passato e cercare una forma di integrazione sociale , mentre Ruth, voce narrante del libro, si lascerà trascinare nel mondo di Sylvie, nella quale troverà la figura materna che le manca. Sylvie pensa che il miglior antidoto alla perdita sia non possedere e crede che la casa sia più un luogo dell’anima che di regole e mattoni e così imposterà la sua vita e quella di Ruth.

Grazie a una scrittura "senza tempo" la Robinson ha dato vita a un classico, un libro che potrebbe essere stato scritto nei primi del 900 o fra cent'anni, non segue tendenze e mode del momento, è pieno di significati profondi e riflessioni e si leggerà da qui fino alla fine del mondo. Un libro delicato sulla solitudine, sul bisogno di essere amati, sulla necessità che ha una famiglia di "cure domestiche", sulla difficoltà di darle e di riceverle. Sulla potenza dei legami di sangue e sulla fragilità degli adolescenti.

Sul desiderio di libertà e sulla necessità di mettere radici.

La domanda profonda a cui ti porta questo romanzo, suggerita già dal titolo e dalla voce stessa di Ruth è se sia possibile “preservare” una casa, salvandola dall’oblio cui la morte e l’inclemenza degli elementi sembrano volerla condannare o

se non sia invece preferibile “non avere niente, perché alla fine crolleranno anche le nostre ossa”.

Grazie S., grazie Marilynne, grazie.

5/5


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