
"Quello che rimane" è il secondo libro di Paula Fox che ho letto e se per il primo ("Il vestito della festa") dovevo ringraziare David Foster Wallace, per questo il mio grazie va al suo più caro amico nonché uno dei miei scrittori preferiti, Jonathan Franzen che ne ha scritto addirittura l'introduzione definendo la Fox una delle più grandi voci del novecento americano.
Sempre Franzen, al quale si deve la riscoperta in America del grandissimo talento narrativo e stilistico della scrittrice, definisce "Quello che rimane" come un romanzo di suspense, che però si trasforma in altro a ogni successiva lettura, riuscendo sempre a sorprendere il lettore.
È certamente un libro fuori dal comune, già dalla trama:
New York, fine anni Sessanta. Otto e Sophie Bentwood sono una tranquilla coppia di mezza età, senza figli e senza più molto da dirsi.
Nulla sembra poter scalfire la loro serenità borghese finché, un pomeriggio, un gatto randagio fa visita alla coppia e mentre Sophie gli da da mangiare, il gatto la morde procurandole una ferita.
Un incidente all’apparenza insignificante, che però darà il via a un susseguirsi di situazioni spiacevoli che, nell’arco di un weekend, porteranno i Bentwood a rimettere in discussione non solo il loro matrimonio, ma anche la loro stessa esistenza.
La Fox riesce, con l’aiuto di una scrittura magistrale e di uno stile asciutto, a elevare una storia apparentemente leggera, fatta di piccoli avvenimenti, a un saggio profondo sulle relazioni umane, sul matrimonio, sulle fragilità dei rapporti fra uomo e donna e fra uomo e uomo.
Attraverso l'analisi introspettiva di pochi personaggi racconta uno spaccato di vita americana nelle famiglie benestanti di una New York in cambiamento, in cui ci si trova a riflettere più sui silenzi che sulle parole dette.
Un libro triste in modo affascinante, claustrofobico e paranoico.
Una lettura non certo facile (Franzen stesso ammette di averne capito a pieno intenti e sfumature solo dopo diverse letture) che mi ha obbligato spesso a dover tornare all’inizio di una frase per comprenderla a fondo, per capirne il sottinteso, per godere e stupirmi dell’uso di certe espressioni.
Una scrittura che ha bisogno di attenzione, che ti insegna a leggere e a capire.
E arrivata alla parola FINE non mi resta che dire "Grazie, Jonathan!".
3,5/5