“‘Sei senza pelle, mi ha detto una volta Shlomo, disgustato. Sono emotiva, impulsiva, secondo lui irrazionale.
Ma senza pelle le emozioni si sentono di più e la mia ansia era la benzina per tutto: scrivere e vivere”
Ho sempre voluto bene a Daria Bignardi. Va te a capire perché.
Sin dai tempi delle "Invasioni Barbariche", programma televisivo che ha condotto per molti anni, ho sempre ammirato in lei una certa onestà, un modo di porsi educato ed elegante così difficile da ritrovare in una televisione che ormai predilige solo sguaiatezza e superficialità. Lei, quasi sotto voce, mi ha sempre regalato momenti autentici, anche se a volte non ne ho condiviso un certo buonismo.
Poi sono arrivati i libri, divisi tra saggi e romanzi e ho continuato a seguirla con interesse, provando le stesse sensazioni.
Anche in quest'ultimo "Storia della mia ansia", che a quanto si è poi saputo da poco tempo è ispirato alla sua esperienza personale, ho riscontrato la stessa sincerità, per me ormai così familiare.
La protagonista, Lea, è una donna quasi cinquantenne che da sempre deve fare i conti con la sua ansia, ricevuta in dote da una madre che l'ha sempre coltivata con dedizione.
"Non sono repressa, ma sfinita. Ho sempre lavorato troppo.
Non era l'ambizione a spingermi a strafare: era l'ansia di fare tutto e farlo il meglio possibile"
Ha un lavoro creativo , una famiglia impegnativa (tre figli ed un marito anaffettivo con il quale litiga continuamente e con il quale vive un eterno conflitto di amore/odio) e una malattia. Un bel giorno la sua vita viene infatti sconvolta dalla notizia di avere il cancro.
Inizierà quindi le cure del caso che cominceranno a distrarla dalla sua ansia e a farle considerare e apprezzare cose della vita che troppo facilmente ha dato per scontate. A riscoprire gesti e sensazioni dimenticate con i quali tornerà ad imparare a dare felicità e serenità principalmente a se stessa.
"Il buono di una malattia è che capisci cosa viene prima. Lo senti senza più incertezza, ed esci dalla ruota del criceto"
La storia non è particolarmente originale e strizza a volte l'occhio a una retorica e a un buonismo sottotraccia che sempre di più fatico a sopportare, ma ciò che stimo di lei, anche in questo caso, è la lucidità e la franchezza con la quale descrive personaggi ed eventi.
L'ansia di vivere, l'accettazione e il confronto con la malattia, sono argomenti in cui tantissime persone si rispecchieranno.
Esibire ed esplorare certi sentimenti e certe sensazioni, parlando senza mezzi termini di questioni gravi e gravose, fa bene sicuramente a chi le scrive (molti scrittori dicono di aver iniziato a scrivere per salvarsi) e certamente a chi le legge.
Non vi starò qui a spoilerare i motivi che mi spingono a dire che per il finale avrei preferito più coraggio.
Mi è parso un po' troppo banale (si era già capito a metà libro) e incanalato nel solito politically correct.
Ma io alla Daria glielo perdono. Va te a capire....
3.5/5