
"non si giudica un libro dalla copertina, non si giudica un libro dalla copertina, non si giudica un libro dalla copertina, non si giudica un libro dalla copertina, ..."
Questo è il mantra che mi sono dovuta ripetere per convincermi a leggere "Cambiare l'acqua ai fiori" di Valèrie Perrin (edizioni e/o) perché mai, mai, avrei scelto quel libro se avessi, appunto, dovuto giudicarlo dalla copertina.
Anche fosse stato l'ultimo rimasto in una libreria e io mi fossi trovata (incredibilmente) senza nulla da leggere, lì sarebbe rimasto.
La scelta della copertina non è mai solo estetica ma pensata per il pubblico che si vuole raggiungere e questa rischia davvero di collocare questo romanzo in mano solo a lettrici da ombrellone e credetemi, sarebbe un peccato perché è molto meglio di come si presenta.
Per fortuna ci è stato consigliato da un'amica (meno prevenuta di noi) che ringraziamo.
Violette Toussaint (cognome a dir poco profetico) è guardiana di un cimitero di una cittadina della Borgogna. Ha avuto una vita difficile segnata da un matrimonio sbagliato e da una grande tragedia, si occupa del piccolo cimitero come di un figlio e accoglie nella sua casetta i vari visitatori che in lei trovano un po' di conforto.
Un giorno un poliziotto arrivato da Marsiglia si presenta con una strana richiesta: sua madre, recentemente scomparsa, ha espresso la volontà di essere sepolta in quel lontano paesino nella tomba di uno sconosciuto signore del posto. Da quel momento le cose prendono una piega inattesa, emergono legami fino allora taciuti tra vivi e morti e certe anime che parevano nere si rivelano luminose.
"Se sulle porte degli armadi c’è una chiave, è perché nessuno li apra."
Il libro è scritto molto bene e già dalle prime pagine ti prende per mano e ti trascina in questa storia malinconica, dolorosa e intrigante.
La struttura è caratterizzata da diverse forme di narrazione, da quella in prima persona a quella epistolare o di diario e si muove tra passato e presente con grande dinamicità. Ogni capitolo è introdotto da un’epigrafe funeraria, che funge quasi da titolo, e che ci spiega come in fondo le parole che scegliamo per raccontare chi erano i nostri cari sono sempre troppo poche ma sono anche quelle che non siamo riusciti a dire loro o che meglio descrivono chi abbiamo amato.
"Non rimanete a piangere intorno alla bara,
non sono lì dentro, non sto dormendo,
sono un migliaio di venti che soffiano"
Ci sono tutti gli ingredienti giusti e ben dosati: romanticismo, passione, dolore e un velo di thriller e questo è il motivo, sembra una contraddizione ma è così, per il quale però non mi ha convinto del tutto. I personaggi sono molto belli anche se alcuni eccessivamente stereotipati, così come la trama, ma c'è qualcosa di artificioso e stucchevole. Una sorta di finzione che percepisci e che diventa evidente in un finale scontatamente buonista.
Tutto sembra studiato per realizzare "un bel romanzo" da cui, ancora meglio, trarre un film dal successo assicurato. Da lettrice scafata come sono, sinceramente, mi sono sentita un po' imbrogliata e l'interesse suscitato all'inizio è andato, un po', calando.
È stato paragonato da molti a "L'eleganza del riccio", opera meravigliosa di Muriel Barbery; è vero, entrambi hanno come protagonista una donna "invisibile", che vive ai margini della società, che svolge un lavoro umile e di cui viene svelato un segreto o una personalità inaspettati. Il paragone finisce qui, però.
Non basta scrivere bene.
"Non c’è solitudine che non sia condivisa."
3,5/5
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