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C.

non si giudica un libro dalla copertina



Il giusto peso” è quello che Kiese, ragazzino di colore nato in Mississipi, cerca di raggiungere, senza ottenerlo mai. È sempre stato pesante, un ragazzino molliccio e sudaticcio, si è sempre vergognato del suo corpo ma non poteva fare a meno di abbuffarsi, soprattutto le volte che veniva picchiato, deriso o quando si sentiva sopraffatto da ciò a cui assisteva. Il suo corpo è sempre stato lo specchio del suo disagio, della sua condizione. È stato grasso e grassissimo ma anche magro e magrissimo ma mai, in quel corpo, ci si è sentito bene.


“Il mio corpo sapeva che a 72 chili e con il 2 per cento di grasso corporeo non ero più emancipato o libero di quanto non fossi a 145 e con le articolazioni malandate.”


Kiese è Kiese Laymon, lo scrittore di questo bellissimo memoir, onesto e toccante, che parla di identità, di potere, di razzismo e verità e di cosa significhi abitare corpi troppo grandi. Ci vuole molta onestà e un profondo coraggio per svelare certi segreti, debolezze e dipendenze e Kaise lo fa in questo libro scritto su e per quella madre a cui direttamente si rivolge, madre amata e odiata, donna dall’apparenza forte e dignitosa ma dalla realtà molto diversa.

Una madre severa, brillante, intransigente e violenta, una donna impegnata per i diritti dei neri, una professoressa che non perde occasione per usare la cinghia e per correggere il suo modo di parlare, ma che nasconde un attaccamento morboso e contraddittorio per quel figlio che cerca di difendere e di mettere in guarda da un mondo di bianchi.

A lei rimprovera molto ma sempre a lei, deve altrettanto.

Lei che ha sempre preteso la perfezione, non bastava fosse bravo: eccellenza e impegno erano il minimo per “mantenere la pelle al sicuro dalle grinfie dei bianchi.


“I bianchi erano addestrati a ferirci in modi in cui non avremmo mai potuto ferire loro”, scrive Laymon. Ma, allo stesso modo, “i genitori erano addestrati a ferire i figli in modi in cui un figlio non avrebbe mai potuto ferire un genitore”.


La verità rende liberi ma nella sua famiglia la verità non è mai stata detta.

Questo è quello che emerge nell'unica conversazione onesta (e bellissimo epilogo) tra madre e figlio in cui i due si confessano e si promettono onestà in futuro, consapevoli che è solo l'ennesima bugia.


Volevo scrivere una bugia, sono le parole con cui inizia questo memoir.

Invece ti ho scritto questo. Ti prego, non essere arrabbiata con me, Mamma.

Volevo solo che capissi dove sono passato. Volevo solo che capissi dove siamo passati.sono invece le parole con cui questo memoir finisce.


5/5

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