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non si giudica un libro dalla copertina


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Ho iniziato a leggere questo ennesimo libro di Philip Roth, con le migliori intenzioni.

Tutto il mondo lo sa: "Il teatro di Sabbath" è uno dei migliori romanzi del maestro americano.

Provate a googlare il titolo e vedrete che vi si apriranno praterie di aggettivi entusiasti e appassionate recensioni.

Pertanto ho deciso di colmare questa imperdonabile lacuna quando ho letto che perfino Jonathan Franzen lo considera il miglior romanzo scritto da Roth.

Il senso di colpa quindi, misto a curiosità, mi ha spinta verso questa scelta, ma io davvero non me la sento di metterlo tra i migliori lavori di Roth. E qui mi par di sentire in sottofondo la folla inferocita.

Sarò strana io, a questo punto, ma la noia che a tratti mi ha colpita, è stata mortale.

Non tanto da pensare di abbandonarlo, questo no, ma ho faticato parecchio a finire un romanzo che mi è parso davvero troppo lungo!

"Lui era il dimenticato burattinaio Mickey Sabbath,

un uomo piccolo e tarchiato con la barba bianca e irritanti occhi verdi

e dita tormentate dall'artrite deformante".

Questa è la presentazione che Roth fa del suo personaggio, ovviamente protagonista di questo, si può senz'altro dire, interminabile tomone.

Pubblicato nel 1995, narra proprio l'intensa vita di questo irriverente omuncolo piccolo e fastidioso, erotomane, ex burattinaio, attraverso continui flashback, da giovane mozzo su una nave a burattinaio nella New York degli anni '50, il tutto condito con moltissimo sesso e azioni di pura cattiveria.

La bravura di Roth, che non si discute MAI, sta proprio nel renderlo antipatico e riluttante; scava nell'animo umano così in profondità da arrivare a rivelarci anche le ossessioni più nascoste e inconfessabili. Fa un bilancio della sua vita ripercorrendo le varie fasi, fino ad arrivare a pensare alla sua lapide, sulla quale vorrebbe scrivere:

Morris Sabbath "Mickey" Amato Puttaniere, Seduttore, Sodomizzatore e Sfruttatore di Donne, Direttore della Morale , Corruttore della Gioventù, Uxoricida, Suicida.

Non mancano tutti i temi cari all'autore: l'ebraismo, anche se qui, a differenza di Portnoy, è meno marcato, l'ironia, la dissacrazione, la morte, il sesso e la vecchiaia. E la bellezza del romanzo sta proprio nel suo essere anticonvenzionale, sfacciato, spiazzante e dissacrante (motivo per il quale non ne ho abbandonato la lettura) e nel suo linguaggio, crudo e diretto, che a dire la verità, adoro, ma come spesso accade, ci sono troppe pagine, troppe ripetizioni.

E' tutto troppo, considerando che per più o meno 400 pagine non succede praticamente nulla.

I continui sbalzi temporali non sono così chiari e qualche volta si perde la bussola anche e soprattutto a causa di periodi eterni.

Non posso mentire: alla fine sono rimasta delusa e anche stanca. E' stato faticoso e infinito.

Credo che se fosse durato la metà, sarebbe stato uno dei miei romanzi preferiti.

Comunque io continuerò la mia missione. Quella di leggere tutti i suoi romanzi!

E avanti con il prossimo...ma magari fra qualche mese...

"E poi il giovane rabbino. Trovate la bellezza anche nella tragedia. Mezz’ora per spiegarci come si fa. Lincoln non è veramente morto, l’amore per lui vive nei nostri cuori. Vero, vero. Eppure, quando mi sono avvicinato alla bara aperta e gli ho chiesto: – Linc, cosa vuoi mangiare stasera per cena? – non mi ha risposto. Anche questo vorrà dire qualcosa."

3/5


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